411

Epistulae, n. 138

Scritta tra il 411 e il 412 d.C., poco dopo il sacco di Roma a opera dei Visigoti guidati da Alarico (410) e alla vigilia della composizione del De civitate Dei, la Lettera 138 di Agostino di Ippona a Marcellino si colloca in uno dei momenti più drammatici della storia tardoantica. L’Impero Romano appare vacillante, le sue certezze politiche e morali incrinate. Molti, anche tra i cristiani, si interrogano sul senso della fede di fronte al crollo dell’ordine civile. Agostino risponde a questo smarrimento con una riflessione che unisce sapienza teologica e lucidità civile. Rivolgendosi al funzionario imperiale Marcellino, egli mostra che la fede cristiana non è evasione dal mondo, ma è fondamento di una cittadinanza autentica. Il buon cristiano è anche un buon cittadino, perché orienta la propria azione al bene comune, alla giustizia e alla pace, valori che rispecchiano l’ordine stesso voluto da Dio. L’impegno nella città terrena, pur consapevole della sua precarietà, diventa così una forma concreta di carità e di servizio.
Questa intuizione, già pienamente espressa nella Lettera 138, troverà il suo sviluppo sistematico nel De civitate Dei, dove Agostino distingue ma non separa la città di Dio dalla città degli uomini. Il credente, radicato nella storia ma orientato verso l’eterno, è chiamato a vivere entrambe le appartenenze, contribuendo al progresso umano senza smarrire la speranza ultima in Dio.

Rileggere oggi questa pagina significa riscoprire un pensiero che parla ancora al nostro tempo: la fede, lungi dal contrapporsi alla razionalità o alla responsabilità civile, ne diventa invece sorgente e criterio. Agostino ci invita così a pensare una cittadinanza che nasce dalla fede e la fede come forma più alta di impegno nella storia.

La mitezza cristiana contraria al bene dello Stato?

2. 9. Vediamo ora qual è il quesito che segue nella tua lettera. Hai soggiunto che gli oppositori dicono che " la predicazione e la dottrina di Cristo non si confanno in alcun modo alle leggi di uno Stato poiché, come si sa, essa prescrive che a nessuno dobbiamo restituire male per male 9, che dobbiamo offrire l'altra guancia a chi ci schiaffeggia, dare il mantello a chi tenta di portarci via la tunica, percorrere un doppio tratto di strada con chi ci costringe ad accompagnarlo "; cose tutte contrarie, così si afferma, alle leggi di uno Stato. " Chi infatti, dicono essi, si lascerebbe portar via qualcosa dal nemico o non vorrebbe, per diritto di guerra, ricambiare il male ai saccheggiatori di una provincia romana? " Io forse confuterei con maggiore impegno questa o altre simili espressioni di censori che parlano spinti non tanto dal desiderio di censurare quanto d'indagare tale problema, se non discutessi con persone provviste d'una cultura liberale. Ma che bisogno c'è di affaticarsi troppo a lungo? Chiediamo piuttosto ad essi stessi in che modo poterono governare e accrescere lo Stato che da " piccolo e povero di mezzi resero grande e potente " gli antichi Romani che preferivano perdonare un torto ricevuto anziché vendicarsi? In che modo Cicerone, esaltando i costumi di Cesare, che fu certo capo dello Stato, poteva dire di lui che " nient'altro voleva dimenticare tranne le offese "? Cicerone diceva ciò o lodando Cesare o adulandolo esageratamente: se lo lodava, lo riconosceva come tale; se lo adulava, mostrava che un capo dello Stato doveva essere come egli falsamente lo esaltava. Orbene, che cos'è il non rendere male per male se non aborrire dalla brama di vendetta e cioè voler perdonare un torto ricevuto piuttosto che vendicarsi e non desiderare altro che dimenticare le offese?

 

Perdono e concordia cristiani, basi di ogni Stato.

2. 10. Quando queste espressioni si leggono nei loro scrittori, la gente prorompe in grida di approvazione e in applausi, si ha l'impressione che si rappresentino ed esaltino quei costumi, per cui era giusto che s'innalzasse lo Stato alla potenza con cui dominare su tutti i popoli, poiché i suoi cittadini preferivano " perdonare un torto ricevuto anziché vendicarsene ". Quando invece si legge che per comando di Dio non si deve rendere male per male, quando questo ammonimento così salutare risuona da un luogo più alto nelle adunanze dei fedeli, come a scuole pubbliche dell'uno e dell'altro sesso e di ogni età e grado sociale, si accusa la religione come nemica dello Stato. Se invece, come sarebbe giusto, si desse ascolto a questa religione, essa darebbe allo Stato un fondamento, una consacrazione, una forza, un accrescimento maggiore di quanto non fecero Romolo, Numa, Bruto e tutti gli altri famosi personaggi ed eroi del popolo romano. Che cos'è infatti lo Stato se non il bene comune del popolo? Il bene comune di tutti e quindi senz'altro il bene dei cittadini d'uno Stato. Che cos'è d'altronde una comunità di cittadini se non una moltitudine di persone unite tra loro dal vincolo della concordia? Presso gli scrittori pagani infatti si legge: Una moltitudine dispersa e randagia formò in breve uno Stato in virtù della concordia. Ma quali precetti di concordia pensarono mai i Romani di far leggere nei loro templi, dal momento che quei poveri sventurati erano costretti a cercare il modo di poter onorare degli dèi discordi tra loro senz'offenderne alcuno? Se avessero voluto imitare gli dèi nella discordia, si sarebbe infranto il vincolo della concordia e lo Stato sarebbe andato in rovina: cosa che s'incominciò a realizzare a poco a poco in seguito alle guerre civili quando i costumi si guastarono e si corruppero.

[…]

Nella morale cristiana la salvezza dello Stato

2. 15. Se la dottrina cristiana condannasse ogni specie di guerre, ai soldati che nel Vangelo chiedono il consiglio per salvarsi, prescriverebbe di gettar via le armi e di sottrarsi completamente agli obblighi del servizio militare. Invece è stato loro detto: Non fate violenza a nessuno e non calunniate; siate contenti della vostra paga. Evidentemente non si vieta di attendere al servizio militare a coloro cui è comandato di accontentarsi della propria paga; pertanto coloro che affermano che la dottrina del Cristo è nemica dello Stato, ci diano un tale esercito, quale la dottrina di Cristo volle che fossero i soldati: ci diano tali provinciali, tali mariti, tali sposi, tali genitori, tali figli, tali padroni, tali servi, tali re, tali giudici, infine tali contribuenti e tali esattori del fisco, quali prescrive che siano la dottrina cristiana, e poi osino chiamarla nemica dello Stato e non esitino piuttosto a confessare che, se essa fosse osservata, sarebbe la potente salvezza dello Stato.

3 ottobre 2025

[Università Cattolica "Nuestra Señora de la Asunción" (Paraguay), 8-10 ottobre 2025]

 

Cari fratelli e sorelle,

Desidero innanzitutto rivolgere il mio saluto a Sua Eccellenza Reverendissima mons. Francisco Javier Pistilli Scorzara, P. Sch., Gran Cancelliere dell’università cattolica Nuestra Señora de la Asunción, e a tutti gli organizzatori e partecipanti a questo congresso internazionale che si propone di analizzare il ruolo e il significato del pensiero filosofico cristiano nella configurazione culturale del continente, al fine di illuminare, partendo dalla fede, le sfide contemporanee.

Con il congresso cercate di essere uno spazio di “incontro, diagnosi, dialogo e proiezione”. Cercare l’incontro è un proposito lodevole, che si oppone alla tentazione di quanti hanno visto nella riflessione razionale — poiché sorta in ambito pagano — una minaccia che avrebbe potuto “inquinare” la purezza della fede cristiana. Pio XII, nell’enciclica Humani generis, metteva in guardia contro l’atteggiamento di quanti, pretendendo di esaltare la Parola di Dio, finivano per sminuire il valore della ragione umana (n. 4). Questa sfiducia verso la filosofia si percepisce anche in alcuni autori moderni, come il teologo riformato Karl Barth. Di fronte a ciò, sant’Agostino ricordava: “Chiunque dunque ritiene che la filosofia si deve evitare in senso assoluto, pretende semplicemente che noi non amiamo la saggezza” (De ordine, I, 11,32). Pertanto, il credente non dovrebbe restare distante da ciò che propongono le diverse scuole filosofiche, ma entrare in dialogo con esse a partire dalla Sacra Scrittura.

In tal modo, il pensiero filosofico diventa uno spazio di incontro privilegiato con quanti non condividono il dono della fede. So per esperienza che l’incredulità è solitamente legata a una serie di pregiudizi storici, filosofici e di altro genere. Senza ridurre la filosofia a un mero strumento apologetico, è immenso il bene che un filosofo credente può compiere con la sua testimonianza di vita e con quello a cui ci incoraggia l’apostolo Pietro: «adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3, 15).

Il secondo proposito, la diagnosi, ci permette di smascherare la pretesa di raggiungere la conoscenza trascendente attraverso la mera analisi razionale, al punto da confondere i beni propri di una vita “secondo ragione” con quelli che possono giungerci solo per grazia divina. Nell’Antichità, il monaco Pelagio sosteneva che bastava la volontà umana per adempiere ai comandamenti senza l’indispensabile aiuto della grazia, tesi a cui sant’Agostino rispose in modo tanto completo quanto profondo. Nella Modernità, G.W.F. Hegel, con la sua speculazione sullo “spirito assoluto”, finì col subordinare la fede al dispiegarsi razionale dello spirito. In diversi pensatori si scopre la stessa illusione, ossia il pensare che la ragione e la volontà bastino da sole per giungere alla verità.

Non dobbiamo dimenticare che la filosofia, essendo un arduo compito dell’intelligenza umana, può ascendere a vette che illuminano e nobilitano, ma può anche discendere a oscuri abissi di pessimismo, misantropia e relativismo, là dove la ragione, chiusa alla luce della fede, diventa ombra di sé stessa. Non tutto ciò che si riveste del nome di “razionale” o “filosofico” possiede in sé identico valore: la sua fecondità si misura in base alla sua conformità con la verità dell’essere e alla sua apertura alla grazia che illumina ogni intelligenza. Con genuina empatia verso tutti, dobbiamo offrire il nostro contributo affinché il nobile compito del filosofare riveli di più e meglio la dignità dell’uomo creato a immagine di Dio, la chiara distinzione tra il bene e il male, e l’affascinante struttura del reale che conduce al Creatore e Redentore.

Il passo successivo è fondamentale: il dialogo. Questo si è rivelato straordinariamente fecondo per i grandi pensatori, teologi e filosofi cristiani. Essi hanno dimostrato come la razionalità umana sia un dono espressamente voluto dal Creatore e come la ricerca più profonda della nostra intelligenza tenda verso la sapienza, che si manifesta nella creazione e raggiunge il suo culmine nell’incontro con nostro Signore Gesù Cristo, che ci rivela il Padre. In questa ottica, già riconoscibile nel II secolo in san Giustino, filosofo e martire, e proseguita poi in figure tanto eminenti come san Bonaventura o san Tommaso d’Aquino, si mostra che la fede e la ragione non solo non si oppongono, ma che si sostengono e completano anche in modo ammirevole. Come diceva il mio predecessore, san Giovanni Paolo II, «il legame intimo tra la sapienza teologica e il sapere filosofico è una delle ricchezze più originali della tradizione cristiana nell’approfondimento della verità rivelata» (Fides et ratio, n. 105).

Il pensatore cristiano è chiamato a essere un promemoria vivente dell’autentica vocazione filosofica come ricerca onesta e perseverante della Sapienza. In tempi in cui tante cose, e anche le persone stesse, vengono viste come scartabili, e in cui il moltiplicarsi dei progressi tecnologici sembra lasciare nella penombra i problemi più trascendenti, la filosofia ha molto da questionare e molto da offrire, nel dialogo tra fede e ragione e Chiesa e mondo.

Infine, la proiezione ci viene proposta come compito nel campo d’intersezione tra filosofia e fede. Senza dubbio, la filosofia, più per le sue domande che per le sue riposte, ci permette di analizzare il nucleo dei valori e i difetti presenti in ogni popolo. In questa linea, il lavoro dei filosofi credenti non può limitarsi a proclamare, pur se in un linguaggio elaborato, ciò che è esclusivo della propria cultura. La cultura, in tal senso, non può essere il fine. Sant’Agostino afferma che non si deve amare la verità perché la si è conosciuta attraverso questo o quel sapiente o filosofo, «ma perché è la verità, anche se nessuno di quei filosofi l’avesse mai conosciuta» (Lettera a Dioscoro, 118, IV, 26). Al contrario, è necessario che, senza perdere di vista le ricchezze culturali, questi pensatori ci aiutino a situarle nell’insieme delle grandi tradizioni di pensiero; in tal modo, il loro contributo sarà magnifico e se, inoltre, i vescovi, i sacerdoti e i missionari che sono chiamati a portare la Buona Novella saranno istruiti con questa conoscenza, il messaggio salvifico si trasmetterà con un linguaggio più comprensibile e pertinente per tutti.

Affidando al Signore il frutto dei vostri lavori, invoco su tutti voi la protezione dalla Beata Vergine Maria, Trono della Sapienza, e vi imparto la Benedizione apostolica come pegno di copiosi beni celesti.

Vaticano, 3 ottobre 2025

 

Universidad Antonio Ruiz de Montoya, Lima, Perù

Tema speciale 2026: ‘Indigenous Spiritualities in Global Perspective’. Conferenza internazionale che riunisce studiosi da tutto il mondo per affrontare le relazioni tra religione, spiritualità e società in prospettiva interdisciplinare.


Luogo: Universidad Antonio Ruiz de Montoya, Lima, Perù (anche online)
data: 22-23 giugno 2026
Info: https://religioninsociety.com/2026-conference

31 ottobre 2025

L’incontro annuale della Society for the Scientific Study of Religion (SSSR) e della Religious
Research Association (RRA) ospiterà tre giornate di presentazioni, sessioni parallele e momenti di confronto dedicati al rapporto tra religione, scienza e società.


Luogo: Minneapolis Marriott City Center, Minneapolis, Stati Uniti

data: 31/10 - 12/11 2025

Info: https://www.sssreligion.org/annual-meeting/information/